Per dare degna conclusione alle nostre riflessioni sul Giorno della
Memoria, dopo aver raccolto alcune importanti testimonianze delle seconde
generazioni, ci è sembrato doveroso ascoltare chi della Shoah ha avuto
esperienza diretta.
Nel corso di un incontro con le scuole presso la Biblioteca Casa del Parco, abbiamo così avuto l'onore di parlare con Lia Levi, una
delle più interessanti scrittrici del nostro attuale panorama letterario, che
al tempo delle persecuzioni razziali era una bambina di dodici anni, scampata
ai rastrellamenti grazie alla prontezza della madre che la nascose insieme alle
sorelle in un convento. Di quel periodo Lia Levi ha lasciato traccia in buona
parte della sua produzione, per questo abbiamo scelto di parlarne con lei
attingendo spunti dalle sue stesse opere.
"La notte dell'oblio"
tratta del silenzio calato per lungo tempo sulla Shoah. Il fatto che lei abbia
raccontato quei terribili anni in molti dei suoi libri - su tutti citiamo la
"Trilogia della memoria" - è motivabile anche con l'esigenza di
trovare un pubblico riscatto dopo tanto "oblio" o è stata un'urgenza
puramente personale?
Non è stato per avere un riscatto, anche perché io non sono una
sopravvissuta ai campi di sterminio, né ho mai visto rifiutato un mio libro
sull'argomento, dato che ho cominciato a scriverne tardi.
Come tanti altri ho
sentito e vissuto lo spirito del tempo, caratterizzato inizialmente da una mancanza
di volontà di raccontare quel che era accaduto. Per anni quindi ho tenuto tutto
dentro, finché non l'ho tirato fuori quasi senza rendermene conto, quando ho
avvertito che i tempi erano maturi. Per una fortuita coincidenza quel momento -
all'inizio degli anni '90 - è collimato con la predisposizione della società a
recepire quanto avvenuto.
Lei ha detto che non si vide
mai rifiutato un libro sull'argomento, come al contrario accadde a Primo Levi. Ha
invece provato come lui - sebbene le vostre esperienze siano state molto
diverse - quel senso di colpa proprio di alcuni sopravvissuti?
Sì. Uno dei motivi per cui non ho scritto un libro prima è stato anche
per i sensi di colpa e di vergogna provati, o per meglio dire a causa del
disagio derivatomi dall'essere scampata alle retate e dall'essere portatrice di
una storia di sofferenza minore, avendo io vissuto un'infanzia difficile, ma
non tragica come quella di Primo Levi. Perciò ho atteso che si attenuasse in me
questa percezione.
Mentre il suo libro d'esordio
"Una bambina e basta" è un racconto dichiaratamente autobiografico,
non si può dire altrettanto del suo ultimo romanzo "La notte
dell'oblio". Tuttavia i punti in comune tra i due sono diversi. Quanto c'è
quindi di autobiografico nel secondo?
Sono autobiografici tutti i fatti per così dire esterni, ossia gli
studi effettuati dalla protagonista, l'ambiente universitario da lei
frequentato, i primi lavori eseguiti, la comunità ebraica, il circolo del
cinema. Di certo il suo modo di sentire non mi rispecchia, né mi riconosco
nell'amore da lei provato per il figlio di una spia.
A proposito di ciò, "La
notte dell'oblio" tratta anche delle delazioni che caratterizzarono gli
anni delle persecuzioni nazifasciste e di cui è vittima pure il padre della
protagonista. Lei ne ha avuto esperienza diretta?
Una volta accadde che a casa mia telefonò uno sconosciuto, il quale
chiese notizie della mia famiglia dicendo di essere un nostro parente. Con
buona probabilità si trattava di un delatore, ma fortunatamente la donna di
servizio che gli rispose, sospettando chi fosse, non gli rivelò nulla.
Poi, pur
non avendolo vissuto in prima persona, c'è un episodio raccontato in "Una
bambina e basta" che è basato su una storia realmente accaduta di cui
venni a conoscenza. Mi riferisco a una famiglia che si volle riunire per un
giorno solo nella propria casa in occasione della Pasqua ebraica, non
immaginando di essere stata denunciata ai tedeschi dai propri vicini di casa. Questo
fatto ci sconvolse profondamente. Purtroppo non fu l'unico, perché, come
numerose sono state le persone che diedero soccorso agli ebrei, cospicuo è
stato anche il numero dei delatori che per cinquemila lire vendettero i propri
conoscenti ai nazifascisti.
Con "Una bambina è
basta" lei ha casualmente scoperto la sua propensione a farsi comprendere
anche dai giovanissimi, tanto che da quel momento numerosi sono stati i libri a
loro dedicati. A suo avviso qual è il giusto approccio per trattare di
tematiche così delicate e complesse, come il genocidio degli ebrei, con un
pubblico di ragazzi?
In effetti "Una bambina e basta" nelle mie intenzioni
originarie era destinato a un pubblico di adulti, quindi per me è stata una grande
sorpresa la ricezione positiva da parte dei ragazzi. Successivamente, invece,
ho iniziato a scrivere rivolgendomi proprio a loro e da quel momento la formula
adottata è stata sempre la stessa. In ogni libro ho cercato di immedesimarsi in
personaggi giovani, raccontando la storia dal loro punto di vista e con il loro
modo di sentire. Per far ciò bisogna riscoprirsi bambini.
Nel romanzo "L'albergo
della magnolia" ha narrato il tormentato amore di un giovane e modesto
professore ebreo per una facoltosa donna ariana. Da cosa si è originata questa
storia giocata tutta sull'attrazione per l'opposto?
Volevo arrivare a parlare di una discutibile pratica abbastanza
frequente in tempo di guerra, ossia l'usanza di qualche donna non ebrea, che,
per salvare il proprio figlio avuto legittimamente con il marito ebreo, preferiva
negare la vera paternità, dichiarando di averlo concepito al di fuori del
matrimonio. Su questo fatto reale ho poi costruito una storia più romanzata, aggiungendo
il tema della logorante attrazione per l'opposto e del compromesso portato alle
sue estreme conseguenze.
In "L'amore mio non
può" vi è la figura di una madre che si adopera per proteggere sua figlia a
seguito della promulgazione delle leggi razziali e che sarà poi costretta a
subire pesanti umiliazioni prestando servizio presso una famiglia di ricchi
ebrei. Perché ha scelto di raccontare una storia segnata dalla mancanza di
solidarietà tra persone accomunate dallo stesso credo religioso?
Perché la realtà non è mai come la si immagina. Non è vero che le
vittime sono tutte buone, come la maggior parte delle persone è portata a
credere. Con questo libro ho scelto di andare contro ogni retorica, mostrando la
verità dei fatti: non tutti gli ebrei si sono aiutati tra loro. Per questo sono
contraria a una visione schematica degli eventi. Io voglio raccontare la
complessità della vita, non banalizzarla nel tentativo di semplificarla.
Per finire, nello scrivere i
suoi romanzi sulla Shoah c'è stato un filo rosso che l'ha guidata oppure ogni
libro è nato da un differente stimolo?
Ogni mia storia ha avuto origine da una diversa ispirazione. Mi sono
sempre servita dello stesso sfondo, ambientando i fatti nel medesimo periodo
storico che mi premeva raccontare. Tuttavia di volta in volta ho adottato punti
di vista e stimoli differenti, calandomi nei panni di personaggi dotati di
proprie peculiarità.
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